Biologico, appunto. E qui tocchiamo l'altra parola chiave, il nuovo tabù. Abbiamo un po' temporeggiato, per la verità, perché c'è da aver paura. Chi può parlarne male oggi? Chi può attaccare il nuovo impero che regna sovrano su tutte le melanzane? Chi può scalfire l'egemonia culturale del peperone senza conservanti né coloranti? L'Italia vanta il primato in Europa per quanto riguarda l'agricoltura biologica. Il biologico va, funziona, piace, sfonda. I giovani imprenditori puntano sul biologico.
Finché bio vorrà. E chi li ferma più? Negli ultimi tempi, per la verità, c'è stato un leggero rallentamento. Piccoli segnali, piccole crisi, qualche dietrofront che ha sorpreso un po' tutti. «È colpa dell'ideologia che si è messa di mezzo. I fondatori del biologico si sentono più militanti dell'anticapitalismo che imprenditori» attacca già nell'autunno 2004 Roberto Pinton, coordinatore del portale verde Greenplanet e profondo conoscitore del mondo bio. «Questo ha prodotto una classe dirigente in gran parte inadeguata e autoreferenziale, malata di protagonismo e di personalismo, incapace di affrontare le esigenze emerse dalla crescita del mercato.» Bella analisi. Ma come si conclude il dibattito? «Bisogna costruirsi una nuova identità» dicono i titolari di un gruppo d'imprese, scrivendo al ministro delle Politiche agricole. Una nuova identità? Sì, forse. Ma intanto si costruiscono nuovi timbri, .nuovi marchi, nuovi piani di sostegno. In pratica, si chiedono nuovi soldi.
L’agricoltura biologica è una ideologia, non una scienza
Ma poi il biologico fa davvero bene a chi lo mangia? Sul fatto si comincia da più parti a sollevare dubbi. Anthony Trewavas, professore di biochimica all'università di Edimburgo, ha pubblicato uno studio che fin dal titolo la dice lunga: Miti urbani sull'agricoltura biologica. «L'agricoltura biologica è un'ideologia, non una scienza», dice. E spiega: «L'ideologia deriva dal presupposto che le cose naturali sono buone e le cose artificiali difettose». Ma è davvero così? Le tenie, i pidocchi e le zanzare che portano la malaria non sono forse naturali? E gli antibiotici, i vaccini e gli anestetici non sono forse artificiali?
«I pesticidi sintetici sono usati da cinquant'anni» scrive Trewavas «e in questo periodo l'incidenza del cancro è diminuita del 15 per cento e quella del cancro allo stomaco, tipica patologia alimentare, è diminuita del 50 per cento.» «I cibi biologici non sono più salutari o sicuri di quelli prodotti dall'industria agroalimentare convenzionale» scrive il «Diario» al termine di una documentata inchiesta (Che bio ce la mandi buona). E persino l'Unione Europea ammette i limiti del biologico, pur continuando a finanziarlo lautamente. Infatti fa normativa comunitaria che disciplina il settore (regolamento Ce 2029/91) all'articolo 10 recita: «Nell'etichettatura e nella pubblicità non possono essere inserite affermazioni che suggeriscano all'acquirente che l'indicazione di alimento biologico costituisce una garanzia di qualità organolettica, nutritiva o sanitaria superiore».
Ma allora, se non c'è garanzia di qualità organolettica, nutritiva eccetera superiore, perché dobbiamo portare soldi alla causa biologica? Perché, in altre parole, dobbiamo pagare zucchine e pomodori molto di più? «Non ci sono basi per affermare che il cibo biologico sia più sano, ma i nostri consumatori lo credono» ha detto alla Conferenza europea sull' agricoltura biologica, con uno slancio di sincerità, il responsabile di Sainsbury, una grande catena di supermercati inglesi. Lo credono, e tanto basta per far diventare tutto più caro. Quando va bene i prodotti biologici ci costano il doppio, ma possono arrivare tranquillamente a costare tre volte di più (come nel caso dei meloni e dei pomodori, per restare al nostro esempio). Soldi, insomma. Perché spenderli, se ciò che acquistiamo non ci dà nessuna «garanzia di qualità organolettica o nutritiva superiore»?
«La mania del cibo biologico è costruita su un mito» scrive sul «Times» di Londra Dick Taverne, presidente del Sense About Science. «Essa ha preso avvio da una bufala scientifica, ha continuato a imperversare senza ragione, perché per nessuna delle affermazioni fatte in merito a questo argomento sono addotte delle prove valide. E se continuerà a prendere piede in questo modo, arriverà a danneggiare la popolazione. Alcuni sostengono che non è un problema se il cibo biologico costa di più, fino a quando i consumatori saranno disposti a pagare e i coltivatori saranno disposti a trame guadagno. E invece questo è un problema: se la frutta e la verdura biologiche saranno così costose, infatti, e se i prodotti biologici conquisteranno una fetta sempre maggiore di mercato, le famiglie a basso reddito saranno costrette a mangiare sempre meno frutta e meno verdura. Così facendo perderanno il loro sistema protettivo nei confronti del cancro.»
Sarebbe un bel paradosso. O, per lo meno, un altro bell’esempio di effetto perverso. Si mitizza il naturale a tutti i costi per stare meglio, e si ottiene, complessivamente, di stare peggio. Si celebrano i prodotti che non fanno venire il cancro, e poi invece si rischia che il cancro colpisca ancor di più. Questo succederà se si continuano a vantare i meriti (inesistenti) del bio per poter vendere frutta e verdura a prezzi più alti.
Nessun beneficio per l’ambiente
Secondo le ricerche di Bruce Ames, il più autorevole studioso americano della materia, il 99,9 per cento delle tossine che ingeriamo derivano dalle piante stesse e non dai prodotti utilizzati in agricoltura. Mediamente, dice Ames, una tazza di caffè contiene una quantità di tossine naturali superiore al quantitativo di quelle sintetiche che ingeriamo in un intero anno. Avete capito bene: una tazzina di caffè è più tossica di tutta la chimica che ingurgitiamo tramite insalata e pomodori non biologici. Il bio più sano? «L'argomento non è sostenibile» risponde persino Enrico Erba, direttore dell' Associazione italiana agricoltura biologica. «Infatti l'agricoltura biologica non nasce per un problema di salute. Nasce, invece, per un problema ambientale.»
Perfetto, ma l'ambiente davvero trae beneficio dalla diffusione del bio? Citiamo ancora il «Diario», settimanale non certo sospettabile di simpatie antiecologiste: «I fertilizzanti naturali usati in agricoltura biologica, come il letame e i liquami, oltre a essere un concentrato di batteri, contengono azoto che può essere dannoso per il suolo, le acque e gli ecosistemia.Studi condotti in Olanda, Germania e Gran Bretagna hanno mostrato come l'uso intensivo di letame e liquami porti all' eutrofizzazione di laghi e fiumi. Al contrario esistono prodotti chimici come il Round Up, il diserbante più usato al mondo, considerati totalmente innocui dall'Organizzazione mondiale della sanità («È peggio ingerire un cucchiaio di sale che un cucchiaio di Round Up» spiega Enrico Sala, professore di Biotecnologie alla Statale di Milano, uno dei maggiori esperti italiani in materia agroalimentare). Conclusione: «Confrontata con l'agricoltura convenzionale condotta secondo i principi della buona pratica agricola» sostiene Trewavas, «l'agricoltura biologica non ha alcun effetto benefico sull'ambiente».
Fra l'altro, pochi lo sanno, ma nell'agricoltura biologica sono ammessi anche i pesticidi. Solo che si tratta di pesticidi naturali. Tra quelli che si usano comunemente segnaliamo: un batterio chiamato Bacillus Thuringiensis, che secondo ricerche condotte in Francia e Canada causa infezioni polmonari letali nei topi; un insetticida chimico di origine vegetale, il Rotenone, che provoca ai topi il morbo di Parkinson; e il solfato di rame (l'antico «verderame») che da sempre ha rovinato il fegato dei viticoltori. Senza contare il rischio di contaminazione con micotossine, che cresce perché le piante non sono trattate con fungicidi: il mais biologico, per esempio, arriverebbe a contenere, per colpa dei funghi, sostanze cancerogene come le aflatossine in misura fino a venti volte superiore rispetto al mais tradizionale. «Le aflatossine sono il cancerogeno più potente in natura» spiega l' oncologo Umberto Veronesi. «Possono finire nella polenta che mangiamo, ma anche nella carne e nel latte perché di mais si nutrono gli animali.» Nel novembre 2003 la Lombardia ha buttato, per questo motivo, il 20 per cento del suo latte.
Ma, a parte questi casi clamorosi, da cronaca, restano i dubbi su tutta la produzione bio. «Il cibo di cui si nutrono a scuola i nostri figli è biologico» scrive il professor Franco Battaglia dell'Università di Roma Tre. «E che cosa significa? Significa, ad esempio, che se la vacca da latte si è beccata un'infezione, viene certificato che questa sarà curata con l'omeopatia. Non so voi con i vostri figli, ma io evito accuratamente di curare con l'omeopatia un'eventuale infezione di mia figlia. Se poi il prodotto fosse addirittura biodinamico ci verrà certificato che è stato seminato eseguendo movimenti circolari antiorari, assicurandosi che Terra, Luna e Giove fossero ben allineati, e che al seme deposto sia stata cantata la ninnananna.» Ma come si fa a essere davvero sicuri, seguendo il criterio della ninnananna?
Come è facile essere bio
L'unica sicurezza che esiste sul bio è che ci sono molti enti che dovrebbero certificarne la sicurezza. Sono molti quelli ufficialmente autorizzati dal ministero delle Politiche agricole ma a che cosa servono davvero? In realtà hanno un vizio d'origine: sono finanziati da chi dovrebbe essere controllato. Gli agricoltori che chiedono la certificazione, infatti, versano al certificatore una quota d'apertura pratica e una quota annuale variabile, oltre che una percentuale sulle vendite. Fatte le debite proporzioni, è lo stesso meccanismo che regola le società di revisione, quelle che certificano i bilanci delle aziende quotate in Borsa: per avere informazioni su quanto tutto ciò funzioni chiedere ai risparmiatori Cirio e Parmalat.
Ma se anche i controllori volessero essere severi, in contrasto con la loro natura e soprattutto con gli interessi del loro portafoglio, non ci riuscirebbero: si trovano infatti a fare i conti con codici e commi sempre più permissivi. Per ogni norma, c'è una deroga. I bovini veramente bio, dicono le leggi, devono disporre di pascoli, ma solo «tutte le volte che questo sia possibile». Gli animali non possono stare alla catena, ma in alcune aziende invece ci possono stare. I conigli devono stare in libertà, ma non si esclude «l'allevamento in gabbia». E quando persino queste flebili norme sembrano troppo rigide, non è difficile aggirarle.
Il bio è trendy, il bio è ecologista, pacifista, no global, difensore delle piante, della natura e dei poveri disperati. E pazienza se nel sito ufficiale dell'Associazione italiana per l'agricoltura biologica compare la pubblicità della Gemeaz Cusin, multinazionale del cibo, quotata in Borsa, 830 ristoranti, 46 milioni di pasti erogati all'anno, una potenza della finanza cibo, che con i no global non ha nulla a che fare. Pazienza, perché il letame puzza, il denaro dello sponsor evidentemente no.
Ma era davvero così bello il mondo antico?
Contraddizioni? Sì, il biomondo è pieno di contraddizioni. Ma a noi che importa? Siamo tutti molto naturali, naturalisti, biodinamici e certificati senza pesticidi. Al mattino prima di andare a lavorare mangiamo tre kiwi (non troppo maturi) con tre bicchieri d'acqua (a temperatura ambiente) perché fa molto chic. Poi magari andiamo ai ristoranti dove servono frittate di ginestra e biscotti di papavero, pollo ai fiori di acacia, spaghetti alla calendula, viole e gerani come se fossero pane e grissini, perché la cucina con i fiori è l'ultima moda very very vip. E se ci ammaliamo, facciamo come il principe Carlo, seguiamo la terapia del medico Max Gerson: cinque clisteri di caffè al giorno, succo di carota, broccoli e mela, oltre che iniezioni di estratto di fegato. E se non serve a nulla, come dice la scienza ufficiale, che importa? Magari andiamo al Creatore, però lo facciamo in modo ecologicamente corretto.
Il principe Carlo, fra l'altro, sull'ecologia ha costruito un piccolo impero economico. Riesce a far passare come prodotto ambientalista anche l'acqua minerale proveniente dal castello della regina in Scozia. E poi sforna, attraverso 40 diverse aziende, una serie di prodotti principescamente bio: biscotti all' avena, allo zenzero e agli agrumi, selezioni di cioccolato al limone e alla mela, frollini al burro, gelati alla vaniglia e alla fragola, miele e Christmas pudding. Non è forse questo uno splendido ritorno alla vita dei nostri nonni? Carlo s'entusiasma e si presenta in modo regale al Salone del Gusto di Torino (ottobre 2004). Colazione con brioche e robiola di Roccaverano, per cena pollo alla cacciatora e peperoni alla bagna cauda, per concludere un caffè della moka. Il principe è contento: in fondo, si sa, lui, come dice uno dei ristoratori che lo serve, «ama le cose all'antica». Per questo si dedica a Camilla e al biologico.
Ma il biologico sarà davvero un ritorno all'antico? O solo una moderna assurdità? Tutta questa fantasia sul Mulino Bianco, lo Scaldasole, la campagna delle favole, il castello della regina con l'acqua minerale e le stalle dove si consumavano «castagne e vino» e «si alimentava il senso di comunità» ... Ma che senso di comunità? Quello che mandava i bambini a lavorare a sei anni? Quello che se arrivava la peronospora dovevi emigrare in Australia? Quello che se veniva giù una grandinata i contadini morivano di fame? Ma era davvero così bella, la vita di una volta? Quanto resisterebbero le anime belle e nostalgiche se fossero davvero proiettate nel passato? Forse nemmeno qualche minuto.