NON CHIAMATELO risarcimento. È un indennizzo. Come se lo Stato dicesse: ci scusi per il disturbo, per averle fatto perdere del tempo. Una sorta di riparazione, ma solo perché una funzione necessaria, l’esercizio della giustizia, ha preso una cantonata, un abbaglio. E pazienza se una reputazione è andata distrutta. Questo tocca a Patrick Lumumba, il congolese protagonista suo malgrado dell’inchiesta per l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia. Coinvolto, pur innocente, dalla prima confessione di Amanda Knox. Finito in cella per 14 giorni, poi liberato con tante scuse.
Ora è arrivato la decisione dei giudici. A Patrick andranno ottomila euro: 235 ogni giorno passato in carcere, più 4 mila 710 per gli altri danni. Nel frattempo Lumumba è stato un “mostro” il cui volto è stato trasmesso in mondovisione. Ha perso il lavoro. Ha provato a riaprire il suo pub, ma dopo il delitto non ci andava più nessuno. E ha dovuto tirar giù, definitivamente, la saracinesca.
Questo tocca a Lumumba, ma a chiunque, nelle fasi dell’indagine, finisca in galera senza alcuna colpa. magari solo perché turato in ballo da altre persone che, in quel momento, sembravano attendibili agli inquirenti. Perché il limite massimo del risarcimento è fissato per legge: 516,45 euro per ogni notte trascorsa sulla branda. E anche la Cassazione, tirata in ballo più volte sulla questione, ha affermato: la cifra andrebbe rivista. Ma finché la legge è questa, non si può ottenere di più.
Non vanno nemmeno nel conto i danni subiti per il clamore mediatico della vicenda: la rilevanza in tv, su internet, sui giornali non è colpa di chi ha indagato su un caso di omicidio e ha preso decisioni che, in quel momento, apparivano fondate.
Solo questo? La Cassazione si è espressa a più riprese su questo argomento. E c’è una recente sentenza, del 13 maggio dello scorso anno, che dà nuove speranze a chi subisce gravi danni alla sua esistenza. Anche se c’è comunque un limite invalicabile. E i giudici ricordano: «L’unico parametro inderogabile è quello massimo». Perché è stabilito per legge.
Stiamo parlando, in questo caso (e per non cadere negli equivoci) di indennizzi corrisposti a chi finisce in galera per ragioni cautelari. Non perché condannato, ma perché imprigionato nella fase delle indagini per i tre presupposti che lo giustificano: il pericolo di fuga, di ripetere il reato, di inquinare le prove.
C’è un altro caso clamoroso che gli italiani ricordano. È quello di Daniele Barillà. Scambiato per un narcotrafficante, fu condannato a 18 anni e ne ha passato in cella sette e mezzo. Poi la revisione del processo, la scarcerazione del 1999, la sentenza di assoluzione l’anno successivo. La corte di appello di Genova gli ha riconosciuto quattro milioni di euro di risarcimento, di cui Barillà ne ha incassato a oggi due. «Quello - spiega il suo avvocato civilista, il genovese Mauro Ferrando - è stato un caso molto diverso. Una cosa è infatti l’ingiusta detenzione durante le indagini, una cosa l’errore giudiziario. Il caso, cioè, in cui una persona sia condannata con una sentenza e poi, ottenendo la revisione del processo, emerga la sua innocenza». In questo caso la situazione è molto diversa, «perché non ci sono limiti prestabiliti al risarcimento, che quindi può anche essere molto superiore a quei 500 euro al giorno. Ma anche in questo caso c’è una distorsione, perché tutto finisce affidato all’assoluta discrezionalità del giudice, senza altri vincoli. Probabilmente è tutto il sistema che andrebbe riformato».
«Purtroppo - spiega un altro avvocato genovese, Maurizio Mascia - le cifre sono queste. Perché la giustizia è considerata una sorta di “male necessario”, di cui non ci sarebbe bisogno in un mondo perfetto ma che deve invece esistere ed esercitare la sua azione. In questo, qualche volta anche sbagliando».
C’è però un caso recente che ha riparto la discussione sugli indennizzi. Un caso recente ed emblematico che quello che tocca un milanese. Finisce in cella l’8 ottobre 1997 e ci rimane fino al 29 settembre dell’anno successivo. E poi, ancora, ai domiciliari fino al 22 luglio 1999. Risultato? La corte di appello di Milano gli riconosce 130 mila euro, dopo due anni trascorsi nella privazione della libertà personale. La Cassazione accoglie il suo ricorso e ricorda: per valutare il danno creato a un innocente non basta solo applicare solo astrusi calcoli aritmetici e tabelle: «Occorre esaminare la storia personale dell’imputato, il suo ruolo professionale e sociale, alle conseguenze pregiudizievoli concretamente patite». Anche se, ricordano ancora una volta, non di risarcimento, ma di indennizzo si parla e la cifra stabilita dalla legge come massima non può essere superata.
Intanto, però, il magro risarcimento concesso dai giudici milanesi dovrà essere rivisto, considerato che la Cassazione lo ha annullato e ha chiesto agli stessi magistrati di riconsiderarlo. Ed è la stessa Cassazione che, proprio lo scorso 30 gennaio, ha comunque ricordato che «sono in contrasto con la Costituzione tutti i casi in cui la riparazione non è applicata per la violazione ingiustificata del diritto alla libertà personale». Insomma: ogni giorno in carcere da innocente vale, al massimo, poco più di 500 euro. Ma almeno quei pochi e maledetti, quelli sono un diritto.
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