Il giorno 08.03.2009, muore una persona che ha fatto parte della mia vita per un po'. Spiace apprenderlo da Internet e a distanza di mesi. Grazie del tuo contributo Luciano, ti auguro che le buone azioni che hai fatto, ti accompagnino.
Morto a 70 anni il cabarettista Luciano Bronzi, stroncato da una crisi cardiaca. Da ex autista Act a comico che non risparmiava la politica.
Aveva fondato il gruppo degli Osimanti. Ha inciso una ventina di cassette.
«Son ancora qua, sono sempre vivo» aveva detto con ironia dieci anni fa agli amici Luciano Bronzi, quando un articolo di questo giornale aveva annunciato la sua morte con un classico «coccodrillo». Il morto in quella occasione era un altro Luciano Bronzi e il comico-cabarettista, già autista dell’Act, l’aveva presa con grande spirito e aveva creato sulla falsariga di questo errore una delle tante, irresistibili gag che hanno contrassegnato la sua carriera. Non è da tutti leggere in anticipo il proprio necrologio e molto pochi - di questi tempi - sono in grado di scherzarvi sopra. Lui lo aveva fatto.
Ieri mattina, invece, Luciano Bronzi è morto per davvero all’ospedale di Cattinara, stroncato dall’ennesima crisi cardiaca ereditata dall’infarto che lo aveva colpito nel 2005.
Era nato nel 1939 a San Giovanni Valdarno, provincia di Arezzo e a novembre avrebbe compiuto i 70 anni. Suo padre Dino era un raffinato cabarettista, nonché apprezzato autore di numerosi stornelli. Anche suo figlio si chiama Dino, e come ha detto ieri «mi sarebbe piaciuto seguire l’attività di papà, ma di fronte alla sua travolgente comicità, ho preferito soprassedere. Troppo bravo».
Luciano Bronzi lo spettacolo lo aveva nel sangue e nella sua lunga carriera si era esibito su Italia Uno, su Canale 5, al Derby di Milano ora divenuto Zelig, al teatro Cristallo e tra i gli italiani d’Australia. Ma anche in night club dove bisognava indossare lo smoking, a feste private, a matrimoni così come nelle osterie e nelle pizzerie di periferia dove ci si esibisce in maniche di camicia, accompagnati da una chitarra, da una fisarmonica e dal calore delle persone che ti vogliono bene e ti apprezzano.
Le sue prime gags le aveva tratte dai discorsi e dagli atteggiamenti dei frequentatori dei bus. Lui guidava i mezzi dell’Act nel pieno del traffico e intanto ascoltava, guardava, memorizzava tic, frasi, discorsi. Nacquero cassette formidabili: «El tranvier», «Ma che tettone che gaveva Marisa», «Xe un marangon e altri mestieri».
Era l’epoca del trattato di Osimo; Trieste una volta in più si era divisa in due fazioni contrapposte. Lui aveva fondato gli «Osimanti», un gruppo che si esibiva sotto la sigla del Controcabaret triestino non solo nei locali ma anche nelle prime radio private che allora si chiamavano «libere».
Del suo lavoro oggi rimangono sul mercato una ventina di «cassette» e una serie di fascicoli poi riuniti nel volume dal titolo «A Trieste se ridi cussì». Ma la vera memoria di Luciano Bronzi è quella che lui è riuscito a trapiantare nei cuori di tanti triestini: scherzava sugli sfratti, sulla rivalità di campanile tra la nostra città e Udine, sui mestieri strani, sul sesso, sull’ecologia ma anche sulla politica. Molto di quanto lui ha detto accompagnato prima dalla chitarra di Mario Orlando, poi da quella di Walter Bolton, oggi non sarebbe più giudicato «politicamente corretto». Forse sarebbe anche velatamente censurato o rimosso in silenzio dal copione televisivo come accadeva molti anni fa agli spettacoli di Angelo Cecchelin.
«Lui ha fatto molta satira politica e spesso ha avuto anche dei guai», aveva detto Luciano Bronzi in una intervista del 1992. «È successo pure a me perché amo andare controcorrente e prendere di mira un po’ tutti. Ma non credo che la satira possa cambiare le cose. Forse aiuta la gente a diventare più critica. Trieste ha tanta voglia di ridere ma non sempre riesce a esprimersi. Qui la gente è triste dentro...» (il Piccolo)
Aveva fondato il gruppo degli Osimanti. Ha inciso una ventina di cassette.
«Son ancora qua, sono sempre vivo» aveva detto con ironia dieci anni fa agli amici Luciano Bronzi, quando un articolo di questo giornale aveva annunciato la sua morte con un classico «coccodrillo». Il morto in quella occasione era un altro Luciano Bronzi e il comico-cabarettista, già autista dell’Act, l’aveva presa con grande spirito e aveva creato sulla falsariga di questo errore una delle tante, irresistibili gag che hanno contrassegnato la sua carriera. Non è da tutti leggere in anticipo il proprio necrologio e molto pochi - di questi tempi - sono in grado di scherzarvi sopra. Lui lo aveva fatto.
Ieri mattina, invece, Luciano Bronzi è morto per davvero all’ospedale di Cattinara, stroncato dall’ennesima crisi cardiaca ereditata dall’infarto che lo aveva colpito nel 2005.
Era nato nel 1939 a San Giovanni Valdarno, provincia di Arezzo e a novembre avrebbe compiuto i 70 anni. Suo padre Dino era un raffinato cabarettista, nonché apprezzato autore di numerosi stornelli. Anche suo figlio si chiama Dino, e come ha detto ieri «mi sarebbe piaciuto seguire l’attività di papà, ma di fronte alla sua travolgente comicità, ho preferito soprassedere. Troppo bravo».
Luciano Bronzi lo spettacolo lo aveva nel sangue e nella sua lunga carriera si era esibito su Italia Uno, su Canale 5, al Derby di Milano ora divenuto Zelig, al teatro Cristallo e tra i gli italiani d’Australia. Ma anche in night club dove bisognava indossare lo smoking, a feste private, a matrimoni così come nelle osterie e nelle pizzerie di periferia dove ci si esibisce in maniche di camicia, accompagnati da una chitarra, da una fisarmonica e dal calore delle persone che ti vogliono bene e ti apprezzano.
Le sue prime gags le aveva tratte dai discorsi e dagli atteggiamenti dei frequentatori dei bus. Lui guidava i mezzi dell’Act nel pieno del traffico e intanto ascoltava, guardava, memorizzava tic, frasi, discorsi. Nacquero cassette formidabili: «El tranvier», «Ma che tettone che gaveva Marisa», «Xe un marangon e altri mestieri».
Era l’epoca del trattato di Osimo; Trieste una volta in più si era divisa in due fazioni contrapposte. Lui aveva fondato gli «Osimanti», un gruppo che si esibiva sotto la sigla del Controcabaret triestino non solo nei locali ma anche nelle prime radio private che allora si chiamavano «libere».
Del suo lavoro oggi rimangono sul mercato una ventina di «cassette» e una serie di fascicoli poi riuniti nel volume dal titolo «A Trieste se ridi cussì». Ma la vera memoria di Luciano Bronzi è quella che lui è riuscito a trapiantare nei cuori di tanti triestini: scherzava sugli sfratti, sulla rivalità di campanile tra la nostra città e Udine, sui mestieri strani, sul sesso, sull’ecologia ma anche sulla politica. Molto di quanto lui ha detto accompagnato prima dalla chitarra di Mario Orlando, poi da quella di Walter Bolton, oggi non sarebbe più giudicato «politicamente corretto». Forse sarebbe anche velatamente censurato o rimosso in silenzio dal copione televisivo come accadeva molti anni fa agli spettacoli di Angelo Cecchelin.
«Lui ha fatto molta satira politica e spesso ha avuto anche dei guai», aveva detto Luciano Bronzi in una intervista del 1992. «È successo pure a me perché amo andare controcorrente e prendere di mira un po’ tutti. Ma non credo che la satira possa cambiare le cose. Forse aiuta la gente a diventare più critica. Trieste ha tanta voglia di ridere ma non sempre riesce a esprimersi. Qui la gente è triste dentro...» (il Piccolo)
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