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domenica 7 giugno 2009

Acqua: che businness

Tempo fa si faceva una riflessione sulla qualità delle acque minerali che si bevono. Ampliamo l'argomento scendendo un poco sotto la superficie.

In tempi in cui a pesticidi, anticrittogamici e varie altre porcherie si sono aggiunti gli OGM, nutrirsi sta diventando una sorta di “gratta e vinci” dal premio inquietante. Quante volte abbiamo detto, o quantomeno pensato, «chissà cosa sto mangiando?»... Ora possiamo riciclare il punto di domanda anche per l’acqua (e non si può nemmeno “vivere d’aria”, non solo per l’inesistente apporto nutritivo).

L’elemento che da sempre simboleggia la purezza di puro ha ben poco, e lo scrive a chiare lettere il giornalista Giuseppe Altamore nel suo libro “Qualcuno vuol darcela a bere”, emblematicamente sottotitolato “acqua minerale, uno scandalo sommerso”.

E’ un libro-inchiesta che merita almeno una riflessione, soprattutto da parte di noi italiani che, le statistiche parlano chiaro, siamo i maggiori consumatori di acqua minerale in bottiglia del mondo (ogni italiano ne beve 190 litri l’anno, spendendo in media mezzo milione di lire. Il giro d'affari è di 5.500 miliardi di vecchie lire, 700 dei quali reinvestiti in pubblicità).

«Qui non vogliamo annoiarvi proponendo solo una sorta di guida agli acquisti», si legge nell’introduzione, «quanto rivelarvi ciò che di solito è quasi un segreto di stato: la composizione analitica dell’acqua minerale, con l’elenco delle concentrazioni di 19 sostanze tossiche che non devono esserci o se ci sono devono essere contenute entro limiti fissati dalle autorità sanitarie internazionali. Limiti che sono in gran parte ignorati dalla legge italiana, con grave pregiudizio per la salute di tutti i consumatori».

Altro che la particella di sodio in crisi di solitudine proposta da una pubblicità... Le bottiglie che talvolta strapaghiamo ospitano una folla di veri e propri veleni, leggere per credere. E se l’acqua del rubinetto che definiamo “cattiva” (in effetti, talvolta, il gusto simil-piscina risulta fastidioso) ci crea qualche perplessità, quella leggera e insapore con tanto di etichetta merita almeno un’analisi in minor grado basata sulla percezione.

“Qualcuno vuol darcela a bere” è un’inchiesta che racconta come una potentissima lobby ha potuto condizionare le scelte politiche di vari governi, fino ad ottenere una legislazione troppo attenta alle esigenze commerciali dei produttori di acque minerali a discapito della salute dei consumatori. Con, come risultato, un paradosso allarmante: a rigor di legge, l’acqua del rubinetto può essere più sicura. Si scopre, infatti, che esistono controlli e limiti più severi relativi alla presenza di sostanze tossiche nell’acqua potabile. Un esempio? L’arsenico non può superare la concentrazione di 10 microgrammi per litro; chi beve acqua minerale, invece, può ritrovarsi nel bicchiere una dose fino a 50 microgrammi per litro.

In sintesi, il libro spiega quali interessi hanno spinto l’industria dell’acqua minerale ad usare ogni mezzo per condizionare le scelte del Parlamento, fino a bloccare almeno due tentativi di riforma della normativa che regola il settore. Si racconta come un perito chimico italiano sia riuscito a far avviare una procedura d’infrazione dell’Unione Europea nei confronti dell’Italia per il mancato rispetto delle direttive europee in materia di tutela della salute dei consumatori; di come l’abbiano spuntata le multinazionali dell’acqua, che sono riuscite ad aggirare le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e persino le severe norme del “Codex alimentarius” che regolano il commercio internazionale.

Un capitolo è interamente dedicato alle inchieste avviate da alcune Procure italiane (tra le quali anche quella di Torino) sulle acque minerali, un altro è incentrato sulle “etichette col trucco” che, a causa di un’eccezione normativa, possono non riportare la presenza di eventuali componenti indesiderabili.

“Qualcuno vuol darcela a bere” è un libro molto interessante, ricco di spunti per riflettere. Inoltre, fa del bene: l’autore destinerà i proventi delle vendite al “Progetto pozzi” delle suore missionarie Saveriane che operano nell’area del Camerun e del Ciad.

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