L'espressione "impresa multinazionale" fu utilizzata per la prima volta da David Lilienthal, direttore della Tennessee Valley Authority, in una relazione presentata al Carnegy Institute of Technology nel 1963.
Il termine assunse, tuttavia, risonanza internazionale il 20 aprile 1963, quando il settimanale Business Week dedicò al tema un numero speciale dal titolo appunto Multinational Companies. In seguito, sono state distinte altre tipologie di imprese in base al loro grado di coinvolgimento all'estero.
Nel 1973 Robinson (Cfr. Beyond the Multinational Corporation, 1971) propose una sorta di graduatoria, in cui individuava:
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le imprese multinazionali, imprese caratterizzate da un chiaro ed effettivo "orientamento internazionale", ma limitato dal fatto che la sede dei processi decisionali rimane all'interno del paese d'origine;
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le imprese internazionali, imprese che intrattengono attività con l'estero e le gestiscono tramite uno specifico "ufficio estero" ove è collocato personale specializzato;
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le imprese transnazionali, imprese caratterizzate da assetti proprietari ripartiti tra azionisti di paesi diversi, il cui "centro decisionale" non è legato a motivazioni o condizionamenti di carattere nazionale;
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le imprese sovranazionali, in cui l'orientamento internazionale è ancora più spiccato e non esistono condizionamenti legati alla struttura dell'impresa od anche a fattori di carattere psicologico o giuridico.
Con l'espressione "impresa multinazionale" (da qui in poi IM) si intende più specificatamente un'impresa che possiede o controlla attività di produzione di beni o servizi in vari paesi. Ciò significa che non è sufficiente per un'impresa svolgere semplici attività di commercializzazione (compravendita di prodotti realizzati nel paese d'origine) o effettuare investimenti all'estero di carattere puramente finanziario (non legati direttamente a finalità produttive, investimenti di portafoglio) per essere qualificata come "multinazionale".
Il termine IM, tuttavia, ha registrato nel tempo una diffusione così ampia da essere utilizzata comunemente anche per indicare le imprese appartenenti alle categorie con un grado di coinvolgimento internazionale più ampio. L'elemento caratterizzante dell'IM è in definitiva la realizzazione di investimenti diretti esteri (IDE), investimenti finanziari che implicano la volontà da parte dell'investitore di esercitare un "controllo diretto" sull'impresa estera, nonché di intervenire in modo consistente nelle decisioni relative alle varie fasi della produzione. I motivi che possono spingere un'impresa ad investire all'estero sono molteplici.
Solo tenendo in considerazione l'interazione tra i diversi fattori che influenzano le scelte di investimento degli operatori è possibile tentare di risalire alle cosiddette "determinanti degli IDE".
Secondo Dunning, il padre della "teoria eclettica delle multinazionali", le decisioni degli investitori rispondono alla volontà di avvalersi di tre principali categorie di vantaggi:
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"vantaggi specifici dell'investitore" legati alla disponibilità di un know how più avanzato (inteso come patrimonio di conoscenze tecnologiche, capacità organizzative e manageriali superiori) rispetto ai concorrenti esterni, nonché ad una serie di altri fattori propri dell'investitore, come la possibilità di contare su un più ampio accesso al credito ed alle materie prime.
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"vantaggi di internalizzazione" legati alla necessità di aggirare ostacoli di varia natura (misure protezionistiche, costi di trasporto) che possono pregiudicare la presenza di un'impresa in un paese.
Il mercato di un paese estero diventa, in seguito all'effettuazione di un investimento diretto, "interno" all'impresa, consentendo alla IM di superare le rigidità che i confini statali possono rappresentare. -
"vantaggi di localizzazione" legati all'opportunità di avvalersi dei benefici derivanti dall'utilizzazione di fattori locali ed alla possibilità, investendo direttamente sul territorio, di rispondere più rapidamente ad eventuali mutamenti intercorsi nella realtà del paese.
Effettuando considerazioni in merito alla maggiore o minore presenza di tali vantaggi, gli investitori decidono, alternativamente, di produrre direttamente sul mercato estero, di cedere licenze e vendere brevetti, rinunciando ad una parte dei vantaggi detenuti, o di limitarsi a servire il mercato estero tramite esportazioni. La presenza di un grado accettabile di stabilità interna e di una serie di misure volte a garantire la funzionalità del mercato, la realizzazione di investimenti infrastrutturali materiali ed immateriali (strade, ferrovie, ponti, ma anche istruzione e qualificazione delle risorse umane), l'elaborazione di politiche volte a favorire lo sviluppo tecnologico e la ricerca scientifica, la predisposizione di misure destinate ad incentivare l'apertura verso l'esterno del paese considerato, sono tutti fattori che contribuiscono a determinare la decisione dell'impresa di investire all'estero.
Per i paesi d'origine dell'impresa che investe all'estero, così come per quelli di destinazione dell'investimento, la valutazione dei vantaggi e dei costi legati all'effettuazione degli IDE risulta, tuttavia, complessa e controversa.
Per i paesi investitori i fattori da considerare sono molteplici. La fuoriuscita di ingenti flussi di capitale, infatti, può determinare nel paese investitore la perdita di risorse indispensabili per il proprio sviluppo, la sottrazione di posti di lavoro specialmente nei settori più deboli dove la manodopera è meno specializzata e, nel breve periodo, un deficit complessivo della bilancia dei pagamenti. Nel lungo periodo, tuttavia, il paese in questione può beneficiare del c.d. "rimpatrio dei profitti" e dell'afflusso di risorse relative ai pagamenti corrisposti per l'acquisto di beni capitali, manufatti ed altri prodotti provenienti dal paese d'origine dell'investimento. Il paese, inoltre, può sopperire alla perdita di posti di lavoro meno qualificati fornendo manodopera specializzata, dotata di un know how tecnico e manageriale superiore.
Anche nei paesi di destinazione degli IDE i fattori da tenere in considerazione sono complessi.
L'afflusso di capitali può dar luogo, per ragioni uguali e contrarie a quelle esposte per i paesi di provenienza degli IDE, ad un miglioramento dei conti con l'estero nel breve periodo.
Nel lungo periodo, tuttavia, il rimpatrio degli utili maturati e l'acquisto di beni capitali o di altri prodotti provenienti dal paese d'origine dell'investimento possono capovolgere la situazione. Il paese di destinazione di un investimento, inoltre, può avere interesse a non permettere che vi sia un controllo estero di quei settori ritenuti di particolare importanza per l'economia nazionale. Il problema si presenta con particolare evidenza nei paesi in via di sviluppo in cui la disponibilità di capitale interno è scarsa ed in cui il rischio di cedere attività fondamentali per la crescita del paese è maggiore. In particolare, il controllo di settori strategici come quelli delle telecomunicazioni e dell'informazione dà agli investitori internazionali la possibilità di avvalersi di uno strumento di pressione molto efficace, che arriva a poter influenzare la vita politica stessa del paese ospitante.
Gli IDE possono essere causa di dipendenza economica e tecnologica dei paesi più poveri da quelli industrializzati dove hanno sede le grandi multinazionali. Ciò può avvenire non solo perché molte delle risorse produttive locali (come le materie prime, il risparmio e la capacità imprenditoriale) vengono assorbite dalle imprese straniere, ma anche perché il paese di destinazione può essere privato di qualsiasi stimolo alla ricerca che rimane prevalentemente di competenza del paese investitore. D'altra parte l'afflusso di capitali e di capacità imprenditoriali genera non solo un incremento dell'occupazione locale, ma anche un miglioramento delle condizioni generali dell'ambiente economico del paese, stimola la realizzazione di opere infrastrutturali e favorisce il diffondersi delle conoscenze tecnologiche e manageriali. Dunque, ogni valutazione in merito all'operare delle IM non può prescindere dalla considerazione della complessità di tutti questi elementi.
Se, da una parte, è vero che gli IDE favoriscono una migliore utilizzazione su scala internazionale dei fattori della produzione, d'altra parte, è anche vero che è auspicabile che la realizzazione degli investimenti avvenga nell'ambito di processi di crescita più equilibrati. Le IM sono ormai interlocutori diretti degli stati. Caratterizzate da un'estrema rapidità dei meccanismi decisionali e da un'elevata flessibilità operativa, le IM hanno assunto in molti casi dimensioni di vere e proprie nazioni (vedi tabella 1) e con esse trattano da pari a pari. La quota del capitale transnazionale sul PIL mondiale è passata dal 17% della metà degli anni '70, al 24% del 1982 ed a oltre il 30% nel 1995. Se si eccettuano alcune società anglo-olandesi a capitale misto (i gruppi Shell e Unilever), 6 soli paesi rappresentano l'assoluta maggioranza di queste imprese. Geograficamente, la maggior parte di esse sono suddivise tra Stati Uniti (30), Giappone (18), Francia(10), Germania (9), Regno Unito (8) e Svizzera (5).
L'importanza della materia ha indotto l'Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OCSE in sigla:) ad avviare nel maggio 1995 una serie di importanti negoziati, poi falliti, per la conclusione di un accordo in materia di investimenti internazionali: l'accordo multilaterale sugli investimenti (MAI).
Il MAI prevedeva l'applicazione da parte dei suoi firmatari della "clausola della nazione più favorita" nei rapporti con gli investitori internazionali e del principio del "trattamento nazionale", che impone di assicurare a tutti modalità di trattamento uguali rispetto a quelle utilizzate nei confronti di operatori nazionali. Il MAI, inoltre, abilitava gli investitori internazionali a citare direttamente in giudizio gli stati per ottenere un compenso per azioni che, secondo il testo dell'accordo, abbiano dato luogo ad "...una mancata opportunità di trarre guadagno da un piano di investimento". Con l'adozione del MAI, dunque, la capacità delle IM di incidere sull'economia mondiale si sarebbe ampliata notevolmente. Il fallimento dell'iniziativa promossa ha determinato notevoli pressioni affinché il tema venga trattato nell'ambito del prossimo ciclo di negoziati (Millennium Round) che si terrà presso l'organizzazione mondiale per il commercio (OMC).
Il tema della relazione esistente tra norme internazionali sugli investimenti e il diritto dei paesi ospitanti di regolamentare autonomamente l'attività economica sul proprio territorio è, infatti, un argomento di grande rilevanza e delicatezza, la cui risoluzione determinerà in futuro non solo i rapporti tra stati nazionali e IM, ma anche il nostro sistema di sviluppo economico. Libere da qualsiasi vincolo territoriale e spinte prioritariamente da obiettivi di profitto, le IM si sono affermate negli ultimi cento anni come protagoniste assolute dello scenario internazionale. Non sempre, però, i principi di convenienza economica che ispirano le IM nella loro azione si conciliano con quei criteri di convenienza politica che dovrebbero ispirare il comportamento degli stati per il raggiungimento di obiettivi di benessere socio-economico condiviso.
Gli scambi tra paesi possono comprendere non solo prodotti, ma anche mezzi di produzione o fattori produttivi come il lavoro o il capitale fisico. Una forma particolare ma molto importante di commercio del capitale fisico (investimenti diretti) avviene quando un'impresa domiciliata in un paese apre una nuova unità produttiva in un altro paese. In questo caso l'impresa diventa una multinazionale (dall'inglese, multinational enterprise).
Le multinazionali sono imprese che arrivano a grandi o grandissime dimensioni nella madrepatria e poi iniziano ad aprire nuovi impianti all'estero. La diffusione delle imprese multinazionali è partita dagli Stati Uniti negli anni '50 ed è un aspetto caratteristico della globalizzazione moderna.
Le attività multinazionali non vanno confuse con un altro fenomeno oggi molto esteso, la cosiddetta delocalizzazione, ossia il fatto che un'impresa trasferisce completamente la propria attività all'estero, probabilmente a causa di costi di produzione o trattamento fiscale più convenienti. Le ragioni di nascita delle multinazionali sono più complesse, e tra esse hanno certo un ruolo problemi inerenti alla dinamica interna delle grandi imprese.
Il ruolo delle attività multinazionali nei paesi in via d'industrializzazione è molto controverso.
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I fautori dei vantaggi della partecipazione all'economia mondiale sottolineano la possibilità che l'arrivo di multinazionali acceleri il processo d'industrializzazione, consenta un elevato tasso d'investimento, introduca più rapidamente nuove tecnologie, favorisca lo sviluppo di nuove professioni e quindi del capitale umano, e generi un più elevato tasso di crescita dell'economia.
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I critici obiettano che le multinazionali hanno uno scarso impatto sull'occupazione locale in quanto
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tendono ad utilizzare manodopera specializzata della madrepatria,
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in quanto grandi imprese, tendono a produrre limitazioni della concorrenza e a introdurre pratiche monopolistiche,
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hanno uno scarso effetto sul reddito locale in quanto gran parte dei profitti sono rimpatriati,
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possono creare varie forme di dipendenza del paese ospitante rispetto al paese investitore, tra cui la creazione d'interferenze politiche straniere per la tutela degli interessi dei loro insediamenti industriali.
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